Il falso profilo è reato: punita la “vanità” in rete

La “vanità” nella rete non perdona e può costare caro. Fingere di essere un’altra persona, spacciarsi per single quando si è invece sposati, usare come fotografia del proprio profilo sui social network quella di un’altra persona, magari nota. Sono alcuni esempi delle nuove falsificazioni digitali che negli ultimi anni sono finite sotto la lente dei giudici, dando vita a una giurisprudenza fatta di fake, finti status e identità inesistenti. L’obiettivo degli autori è quello di avere più visibilità, ingannare gli utenti o estorcere denaro. Il reato presupposto è sempre lo stesso: la sostituzione di persona, punita con la reclusione fino a un anno e procedibile d’ufficio. Eppure, gli autori sembrano non temere le conseguenze delle attività ingannatorie online, soprattutto se si muovono con un nickname o usano falsi account. Tutti accorgimenti che, da soli, non scongiurano l’eventualità di un processo penale.

L’attribuirsi uno status fittizio
Per la Corte di cassazione è reato anche spacciarsi per single quando si è sposati. Lo ha stabilito con la pronuncia 34800 del 15 giugno 2016, che mette in guardia gli utenti dall’uso di falsi status sui social network. Così come integra il reato anche soltanto utilizzare come foto del proprio profilo Facebook l’immagine di un’altra persona, come ha stabilito la Suprema corte con la sentenza 4.413 del 10 ottobre 2017. Si tratta di un reato contro la fede pubblica: a essere tutelata è la fiducia che gli altri utenti della rete devono poter riporre nelle identità altrui. A pesare sono non soltanto le falsificazioni delle identità ma anche le false attribuzioni di qualità alle quali la legge attribuisce effetti giuridici, come lo stato civile o l’età. Già da tempo, poi, i giudici avevano sottolineato che la finalità non deve essere necessariamente economica: il vantaggio descritto dalla norma può essere dato anche semplicemente dalla visibilità, nuovo patrimonio degli utenti della rete. Per la legge, il profilo digitale costituisce oggi una proiezione di diritti della personalità nella comunità virtuale.

Il nickname altrui
Non salva nemmeno usare un nickname o un fake di un personaggio famoso. Ad avviso dei giudici, anche gli pseudonimi utilizzati in rete hanno una dimensione concreta, in grado da sola di produrre effetti reali nella sfera giuridica altrui. Per questo, quando non ci sono dubbi sulla riconducibilità del nickname a una persona fisica, questo ha natura di «contrassegno identificativo» e può condurre a una responsabilità penale.

La falsa identità per truffe
Più spesso le falsificazioni delle identità passano attraverso la commissione di altri reati, come la truffa. È il caso di chi crea falsi account per accedere al car sharing (e poi si tradisce usando un’utenza realmente nella sua disponibilità) oppure per godere di un buon rating online per ottenere un credito da privati, il cosiddetto peer landing. È pacifica ormai la giurisprudenza delle sostituzioni di persona che si aggiungono alle estorsioni. L’autore si finge un’altra persona per attirare a sé virtualmente un possibile partner al quale chiede fotografie o video erotici per poi ricattarlo se si rifiuta di pagare una certa somma di denaro. La tecnologia ha poi modificato le possibili modalità esecutive del reato, ad esempio in tutti i casi in cui l’autenticazione dell’interessato avvenga attraverso tecniche biometriche o di identificazione facciale. L’identità digitale è ormai espressamente tutelata dalla legge 119/2003, che ha inserito nell’articolo 640-ter del Codice penale l’aggravante per l’ipotesi in cui il fatto sia commesso «con furto o indebito utilizzo dell’identità digitale». Il nuovo Regolamento europeo sulla privacy (2016/679) ha, tra gli obiettivi, anche quello di rendere meno attaccabili i database e, di conseguenza, ridurre la possibilità di sostituzioni di persona e accessi abusivi in generale.

Fonte: Il Sole 24 Ore